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giovedì 29 settembre 2016

Consigli di scrittura #2



Ebbene sì, siamo ancora vive!

Ci scusiamo umilmente per il vergognoso ritardo nell'aggiornale, ma, sapete, la scuola è uno strumento di tortura fatto per aspirare via la vita sociale (o la vita in generale), e Vale ed io siamo solo vittime innocenti.




Comunque, siccome vogliamo tanto farci perdonare, ecco a voi un freschissimo, nuovissimo, simpaticissimo Mushu.
Ah, no...? Stiamo parlando dei consigli di scrittura?
Passiamo al titolo, forse è meglio.


#2 Li Tagliano Correggiuto 
Fidatevi di me, per quanto di questi tempi vadano di moda fanfiction al limite dell'assurdo e storie con una grammatica da far rivoltare Dante nella tomba, senza un italiano corretto non arriverete lontano.
E sì, so che è un argomento così tanto affrontato da risultare quasi obsoleto, ma la nostra lingua sta lentamente scemando in un comune dialetto più che mai storpiato, carente di congiuntivi e persino delle basi della scrittura: 'l'hanno scorso o viaggiato molto' è un chiaro esempio di omicidio che, a confronto, le quarantatre pugnalate a Cesare sono state un semplice screzio tra bulli di quartiere.
Nonostante tutto, però, ogni buon lettore cerca la qualità, così anche gli editori che si rispettino, e se ad una trama avvincente, a personaggi ben caratterizzati e a fantastici colpi di scena aggiungerete anche una buona sintassi, potete stare certi che  la vostra storia avrà molte più possibilità di far successo di una volgare storiella online.

Sì, lo so cosa state pensando: "siamo in Italia, qui vanno avanti solo i raccomandati"; non lo nego di certo ma, ehi, è anche una soddisfazione personale!

Non dimenticate mai che uno scrittore scrive per se stesso, prima che per gli altri.



-Marty

lunedì 19 settembre 2016

I personaggi di 'Senza Ombra': Niallen

Niallen, l'angelo perduto _ Storia narrata dal suo migliore e unico amico, Irusakiran_ Di notte, l'arcobaleno e la distruzione.

Niallen-kyala, by Vale

Così fuggì l’arcobaleno, portando con sé i colori del mondo.

***

Era notte, e nessuno ti avrebbe visto, creatura spaurita e distrutta. Nessuno t’avrebbe visto, perché la tua luce si stava estinguendo pian piano, tacendosi per partecipare al tuo dolore, annullandosi, lasciando dietro sé solo il vuoto: questo ti circondava, una luminescenza pallida e inferma, invisibile, candela morente destinata al buio. Forse in te albergavi ancora una speranza, non posso dirlo, amico mio, ma il tuo aspetto era di chi si è già arreso.
Né la luna né le stelle mostravano il viso, celandosi dietro una cortina di nubi nere come l’abisso, come i tuoi occhi, voltandoti le spalle, scure al tuo cospetto. Il cielo sopra di te sembrava pronto a crollarti addosso, a schiacciarti, lo sentivi intorno a te, sul collo, sulle mani, soffocante e freddo.
Non voluto, reietto, ti spegnevi con grazia –in vita ma senza luce, qualcosa di crudele, assurdo, mostruoso: temevi te stesso e il tuo furore, temevi il gelo della tua solitudine, solitudine autoimposta, punizione infinita per una colpa che non ti apparteneva. Abbandonato, ridevi dolcemente, e la tua voce sapeva di morte, era il lamento straziato di una terra perduta; non mi hai cercato, angelo mio, angelo buono, e di questo mi rammarico: non c’era altro per te che non fosse lo strazio che ti accompagnava, e non avevi spazio per me, credo. Eri tradito.
A cosa pensavi, guardando il pallore delle tue braccia tremanti, l’argento riflesso su quella pelle che pareva una colata di metallo fuso? Ancora, ridevi, disgustato dalla tua infinita debolezza, dall’egoismo in cui ti permettevi di affondare, giù, giù, sempre più giù, fino a toccare un fondo che non esisteva.
Per amore, hai condannato un mondo.
È terribile, vero, angelo mio? Raccapricciante come in te non ci fosse orrore per quel pensiero, atroce come non fosse che l’unica tua certezza. La tua vita altro non è stata che un insieme di lucide bolle di sapone: fragili e variopinte, eteree, bellissime, riflettevano i colori di un arcobaleno che tu stesso generavi, e volavano, volavano… Tu le seguivi –ci seguivi, amorevolmente. E quando anche l’ultima di quelle tue bolle di pensiero è scoppiata… a quel punto hai perso tutto. Ti sei perso.
Che cosa cercavi, mio caro amico? Perché ancora scrutavi il cielo, cercando risposte assenti, risposte che solo tu puoi dare, risposte che perdono significato non appena abbandonano le tue labbra dischiuse e tremule? Perché, pur nella resa, non ti arrendi?
La pioggia che iniziò a cadere non ti infastidiva, e, d’altronde, non l’aveva mai fatto. Tingeva il tuo mondo di pallido grigio, carezzandoti piano, cullandoti nella tua tristezza –la tua Terra, tua figlia, piangeva per te, lo sapevi. Le piccole gocce d’acqua tiepida ti sussurravano all’orecchio terrificanti segreti, che, temo, non rivelerai mai, ma tu non sembravi ascoltarle: guardavi le tue mani e tacevi.
Erano macchiate di sangue, quelle tue mani.
Forse la pioggia l’avrebbe lavato via. Forse era per questo che l’amavi. Forse ti dava l’illusione di essere più pulito. Più puro.
La tua luce smorzata era riflessa un milione di volte nell’aria umida, eppure non c’era arcobaleno, era troppo buio, c’era troppo odio in te. Odiavi, tanto. Amavi, tanto. Non ti restava altro, in fondo, potevi soltanto vivere nella consapevolezza di essere inutile, di aver fallito, di non essere adeguato, di non aver fatto abbastanza. La resa era ancora più amara se giungeva dall’essere più potente dell’intero universo, il più buono, il più dolce.
La tua resa, più di ogni altra cosa, mi spaventava: aveva l’acre sapore della morte. Volevi salvare il mondo che hai creato, invece adesso saresti stato la causa della sua distruzione.
Ti sembrava giusto, vero? Era ciò che meritava, dopo averti tradito così, dopo aver reso vano ogni tuo sforzo, dopo che si era preso fino all’ultima stilla della tua luce. Davvero non ho la forza di contraddirti né biasimarti, perdonami, so che dovrei.
Dunque trema, O mondo, perché il tuo più grande protettore ha decretato la tua fine!
Che cosa ne sarà di te, angelo buono, quando avrai portato a compimento la tua vendetta? Troverai finalmente la pace? Io te lo auguro, te lo auguro di tutto cuore, anche se certo non sarò lì per vederlo.
Le gocce di pioggia sul tuo volto stanco sembravano lacrime, o così mi piaceva pensare. Non provavi rimorso, solo sollievo, e ancora sorridevi, seguendo la danza dell’acqua piovana con quei tuoi occhi color dell’universo. Mi chiedevo quando sarebbe giunta l’ora in cui l’universo sarebbe imploso, cancellandosi.
L’avvento dell’alba era vicino, eppure tu non accennavi a muoverti: in piedi davanti alla spiaggia deserta, le ali pesanti e zuppe abbandonate dietro di te, fremevi mentre il cielo si schiariva, compensando l’oscurità che stava mangiando la tua luce, rosicchiandola con la tenacia di un anziano roditore. Una volta, ti piacevano i topolini –lasciavi che camminassero sui tuoi palmi, zampettando qua e là, curavi i loro nidi. Ora nulla più ti smuove, nulla ti tocca, è così?
D’un tratto, ti vidi sollevare le braccia di scatto, come ad arrestare la venuta del sole, impresa impossibile perfino per te. Invece fu un arcobaleno a seguire il tuo gesto, quasi nascendo dalle tue mani, quando invece era tanto lontano quanto i giorni felici che ti eri da tempo lasciati alle spalle. La tua dolce, folle risata riempì l’aria, scampanellando, eri contento di bagnarti in quel mare di colori decisi e sgargianti, contento di lasciare che ti attraversassero con la forza e la crudezza di dardi affilati scagliati dall’etere.
Erano i tuoi sentimenti a volare via a cavallo dei raggi del sole nascente, o forse ero io che m’ingannavo, che m’illudevo di poter seguire il filo contorto dei tuoi pensieri. Eppure il tremore che ti scuoteva con violenza testimoniava la tua enorme sofferenza, e il modo in cui sembravi voler rincorrere l’iride tradiva la tua nostalgia. Sarei stato in grado di aiutarti, angelo mio? Rimpiango di non aver tentato…
Perdonami. Perdonami, te ne prego.

***


Così fuggì l’arcobaleno, portando con sé la tua dolce anima smarrita.


-Vale


giovedì 15 settembre 2016

I personaggi di 'Senza Ombra': Sasher

Splendida gente! Dopo un rientro dolceamaro a scuola (ultimo anno di liceo… Salvami, O Provvidenza!) torno anche sul blog, oltre che sui banchi!
Oggi vi presenterò Sasher (o Ny’ra), personaggio verso cui nutro sentimenti contrastanti -odi et amo, a seconda della situazione- e a cui, in fondo, sono particolarmente affezionata. È la più giovane fra tutti, è una mente in crescita, dinamica e spaventata e audace, una creatura d’argento vivo, in perenne mutamento; è terribilmente divisa tra due mondi, due parti di se stessa, due diverse forme di lealtà: vorrebbe essere Migliore, e non sa accontentarsi di dare semplicemente il meglio che può, vorrebbe sfidare ogni cosa e uscirne vincitrice e si sente in colpa per questa sua sfrontata, infantile arroganza. Le sue emozioni sono roventi, forti, conflittuali. È splendidamente innocente e disincantata.



Era Sasher e i suoi occhi si posavano su un tramonto vermiglio -caldo, morbido, unico tenero abbraccio che il mondo le avesse mai concesso. Le sue mani sottili e bianche (nulla a che vedere con l’incarnato bruno dei demoni con cui viveva e di cui era figlia) scivolavano leste sulle tegole nere del Palazzo del Dittatore suo padre, carezzandone la superficie gelida con sapiente destrezza. Quando camminava, non un suono sfiorava i pavimenti di lucido marmo, non un filo di polvere si sollevava attorno a lei, e nient’altro annunciava la sua solitaria presenza se non le risa di scherno e i sussurri che la accompagnavano ovunque.
Lei era Sasher. Sasher, l’esperimento, la figlia bastarda, colei che non avrebbe dovuto essere, una ragazzina sicario il cui aspetto di Sanguemisto (ma poi, non erano forse tutti sanguemisto in quella terra il cui unico vero popolo era svanito con gli angeli?) era frutto di contorti incantesimi e di una madre Spirito e di un orrido abuso e di un suicidio.
Lei era la più fedele. Il suo onore, il suo Hetah, era quanto di più importante avesse in quel regno freddo e spoglio che era la corte; pur essendo principessa di nome e di fatto, sempre aveva servito.
“Mio signore,” Mio signore, non padre, mai padre, lui è al di sopra, lui è il Dittatore, lui ha in mano la mia vita… “Vi prego di affidare a me la missione di cui parlate. Vi prometto che farò più di quanto in mio potere per portarla a termine.”
“Perderai la tua identità.” La mia identità, quale identità, che cosa sono io, che cosa mi definisce? Certo non il mio nome, il mio nome che mi condanna…
“Sono pronta a fare qualunque sacrificio.” Qualunque sacrificio, pur di andarmene da qui.
“Molto bene. Affido la missione di sorvegliare il possibile Sovversivo a te, Sasher. Al più presto partirai alla volta dell’Impero degli Elfi, insieme a due delle mie Guardie.”

Da quel momento fu Ny’ra. Innocente, fragile, fedele. La sua mente confusa si aggrappò a quelle poche certezze che le erano rimaste (il bene e il male, qual era la differenza?), sforzandosi di comporre ricordi nascosti, cercando un’individualità di cui aveva un disperato bisogno. Chi sono, chi sono, chi sono?
Occhi dorati gentili e pieni d’ironia, un sorriso vittorioso e triste dipinto su un volto pallido e infermo, lenti a mezzaluna posate su un naso dritto -Naeth, il Professor Naeth di Pherahet divenne tutto il suo mondo; l’aveva accolta, l’aveva salvata, l’aveva guarita, l’aveva accettata. “Sanguemisto. Non è molto diverso da ‘elfo’, sai?” diceva, e accarezzava la micia Milu, candida ombra che gli donava sicurezza.
Ny’ra si guardava allo specchio e per la prima volta ciò che vedeva non era più fonte di vergogna, non era più causa di sconcerto e rancore vuoto verso un destino che l’aveva voluta aliena: Ny’ra si guardava allo specchio e vedeva se stessa, vedeva una ragazza.
Avrebbe dato la vita per salvare quella di lui. Gli avrebbe donato l’anima -chissà, forse Naeth lo sapeva, vedeva l’affetto bruciante che gli riversava addosso, e la compativa un poco, perché lui stava per morire, e non c’era verso di cambiare lo stato delle cose. L’aveva costretta a promettere, promettere che non avrebbe sprecato tempo a cercare una cura per la sua maledizione, non quando l’intera loro terra rischiava di svanire, perire sotto la morsa di una calura mortale. E Ny’ra che lo amava era forte per lui -per lui soltanto- e provava a salvare il mondo.

Poi d’un tratto un volto, un nome -sua sorella che sussurrava ‘Sasher’ piano, a fior di labbra, in piedi sulla linea di confine che separava demoni da elfi e su cui sorgeva la Rivoluzione. E all’improvviso lei era di nuovo Sasher, ed era fredda e calcolatrice e assassina, e la sua missione era di uccidere lui… Il tocco familiare di quel filosofo Sovversivo si era fatto sconosciuto e indesiderato, il suo viso quello del tradimento…
Da qualche parte, l’affetto condizionante che aveva provato per il Professore premeva per uscire, ma lo intrappolò in un angolo della propria testa. Come posso tradirlo così?
Devi.
Ny’ra era ancora lì, nella sua mente, e premeva per essere ascoltata, ruggiva e piangeva e minacciava, e Sasher era spezzata, infranta, divisa, confusa…
Non potrei mai competere… pensò la Sanguemisto, con ciò che Naeth e Tessella hanno fatto di me in così poco tempo. Ma presto Ny’ra scomparirà, perché io sono quello che sono, e non le assomiglio affatto.
Eppure non trovava pace. Rifiutava la consapevolezza di essere in parte artefice della fine di ogni cosa, artefice della morte di Neith, della morte di Naeth… La scelta giusta era una e una sola, ma quanto coraggio, quanta forza di spirito le ci volle per confrontarsi col padre e ripudiarlo? Lei era Sasher, l’esperimento, come poteva pretendere di aver voce in capitolo?
Ma l’aveva -Ny’ra l’aveva, lei l’aveva! Ma chi, chi delle due era lei? Chi la rappresentava meglio?

“Lui è di Ny’ra che si fidava, era Ny’ra che amava, Ny’ra, non Sasher.”
La madre di Naeth le sorrideva gentilmente, ascoltando i suoi timori con pazienza. “Ma c’è davvero tutta questa differenza fra Ny’ra e Sasher?” le domandò a bruciapelo. “Ricordati che stiamo parlando della stessa persona. Anzi, forse in Ny’ra c’è molto più di ciò che sei, rispetto a Sasher, soffocata dalle catene del Dittatore.”
Sasher chinò il capo, riconoscendo quelle parole come veraci. “Tu, Tessella, hai ragione, ma fino a un certo punto. Non posso cambiare ciò che sono diventata vivendo a Palazzo, non posso essere soltanto e appieno Ny’ra, e allo stesso tempo Sasher non mi basta più, non mi appartiene più. Ha senso quel che dico?” Si fece sfuggire una risatina.
Tessella annuì, e le pose un’altra domanda: “E allora, bambina mia… è davvero necessario che tu scelga fra le due? Ormai sei in grado di prendere il meglio di entrambe e decidere per te stessa, per la tua vita. Hai uno splendido futuro davanti; sei libera.”
Forse, Sasher avrebbe potuto crederci.



-Vale

lunedì 12 settembre 2016

Consigli di scrittura #1

Scrivere è una vocazione, un mestiere, ma, soprattutto, è una passione e, come tutte le passioni, va coltivata e condivisa.
Ognuno ha il proprio modo di scrivere: c'è chi lo fa tutto d'un getto, chi impiega un mese intero per un capitolo solo, chi ama lunghe e dettagliate descrizioni e chi, invece, preferisce andare subito dritto al punto.
A qualunque categoria si appartenga, tuttavia, vi sono alcune cose indispensabili che ogni buon scrittore deve conoscere, a partire dai semplici oggetti che bisogna possedere fino ad arrivare ai punti da seguire per creare una storia.
E proprio questi fattori saranno i protagonisti di questa nuova rubrica 'consigli di scrittura', nella quale, passo per passo, vi daremo dei consigli basati sulla nostra personale esperienza.
Pronti? No? Fa niente.

  Il Maestro Hashim (Le Ombre di Kaykoura) è anche uno scrittore... piuttosto disorganizzato! disegno by Vale



#1 Mai, e dico, MAI, dimenticare il quaderno a casa.
Ebbene, sì, che vi piaccia o meno, quaderni e block notes sono i migliori amici dello scrittore (penna a parte, si intende). Le idee migliori vengono sempre nei luoghi e nelle situazioni meno impensabili; sapete che J.K.Rowling ha avuto l'idea di Harry Potter mentre stava sul treno e guardava le mucche? Giusto per fare un esempio da poco.
Quindi, onde evitare di ritrovarsi come la sottoscritta, è sempre meglio avere con sé qualcosa dove appuntarsele perché potrebbe capitarvi di creare il dialogo della vostra vita e, arrivati a casa, non ricordarvi assolutamente nulla… e questa è, purtroppo, una storia vera.
Non deve essere per forza un quaderno grande, anche l'agendina della salute che la nonna vi ha regalato la scorsa quaresima andrà benissimo, l'importante è che sia qualcosa di pratico e funzionale dove poter buttare giù qualsiasi cosa vi passi per la testa. E ricordate di non aspettare che la vostra mente vi sorprenda con un prologo degno de 'I Miserabili' per tirarlo fuori, perché, a volte (anzi, decisamente molto spesso), anche la frase più insignificante può fare la differenza.
Quindi ciancio alle bande! Correte subito a frugare nel cassetto alla ricerca del quadernino immacolato che vi hanno dato in omaggio al supermercato e mettetelo in borsa!


-Marty.

venerdì 9 settembre 2016

I personaggi di 'Senza Ombra': Hanasiranae

Ritorno oggi con la presentazione di Hana (o Hanasiranae, il suo nome completo). A mio parere, è un personaggio sottile, delicato, fermamente vincolato da catene di dovere e consapevolezza del proprio ruoto, ma tremendamente nostalgico e triste: nell'illustrazione che segue ho voluto circondarla dei toni del lilla (nel codice demoniaco dei colori, la vita che muore) e ho rovesciato lo sfondo, ponendolo in obliquo, per sottolineare la sua non appartenenza al mondo che protegge.
Questa presentazione è un po' diversa dalle altre: tutto ciò che è narrato esula dal romanzo vero e proprio; si tratta di eventi accaduti prima dell'inizio della storia, perché Hana è una creatura molto, molto antica...

                                                         Hanasiranae nelle sue vesti di Guardiana, by Vale


In più di millesettecento anni di vita, Hanasiranae era stata molte cose. D’altronde, lei era la Guardiana del mondo -la prima cosa su cui aveva posato lo sguardo erano stati gli occhi freddi e imperscrutabili dell’angela che l’aveva creata: si era quasi persa in quell’abisso di gelido spazio e argenti stelle che sembrava volerla risucchiare, ma tornare in superficie, tornare alla realtà, era stato semplice, più che semplice, perché la realtà la affascinava.
Hanasiranae, la Prima tra gli Spiriti, essere composto di limpida luce violetta e del soffio inquieto di una mente, amava la terra che era suo compito proteggere, anche se non poteva toccarla, anche se non poteva respirarla, assaggiarla, sentirla. Era un fantasma, era pura magia (a lei gli angeli avevano affidato il potere di Creare e guarire, che ormai non erano più in grado di gestire), era il frutto di un incantesimo disperato, l’ultima speranza per un mondo straziato da guerre potenti.
Era… una serva.
Il suo compito? Purificare Haryha dalla follia.
“Giuro di proteggere la Tua grandezza,” disse, frapponendosi tra l’angela Helian-ashta e i suoi nemici, “Giuro di preservare la Tua coscienza,” disse, ergendosi al fianco del proprio compagno -erano soli davanti all’immensità della guerra che dovevano, dovevano, combattere, a ogni costo, portando avanti un terribile sterminio che pure era indispensabile.
“Giuro di stare al Tuo fianco fino alla fine,” disse, guardando l’orrido spettacolo di un angelo che moriva tra grida e lamenti e luce che si spegneva.
“Lo giuro sulla mia vita e sul mio onore…”

Hanasiranae amava: amava, profondamente, con tutta se stessa: amava il mondo per come era e amava la vita e amava l’angelo Niallen che era l’unico a capire, l’unico a conoscere davvero la grandezza del sacrificio che lei faceva; perché Hana non amava soltanto, lei era innamorata, viveva un amore che non avrebbe mai potuto consumare.
In fondo, come sarebbe stato mai possibile a uno Spirito -un etereo, impalpabile Spirito-toccare, stringere, baciare? Eppure la sua anima era legata, vincolata da avide corde sottili a quella di un Drago, il Primo, colui che era la sua metà, la Distruzione dove lei era la Creazione.
La loro vita non era interamente infelice: i Custodi non erano mai soli, in fondo. Perfino quando i due angeli si separavano da loro, il Drago e lo Spirito restavano vicini, in contatto -si accontentavano semplicemente di mescolare le proprie menti l’una con l’altra, finché tutte le barriere svanivano e non restava altro che infinita gioia, la sensazione di adeguatezza, di perfezione, portata dal semplice essere insieme.

Insieme vagavano, insieme cercavano, insieme uccidevano e piangevano e si crogiolavano in un rimorso che veniva dalla consapevolezza di non essere altro che strumenti di una vendetta infinitamente più grande di loro, uno massacro che, per quanto giustificato, era abominevole. Gli angeli impazziti avrebbero annientato il mondo -quella stessa vita che avevano voluto e curato e cresciuto- e quindi era necessario, era imperativo schiacciarli, annullarli, dimenticarli. Ma ogni vittima che cadeva per mano loro era un passo verso un precipizio senza fine e senza via di fuga, la prova che per Haryha non c’era più speranza. Quando i Guardiani si sarebbero arresi, allora sarebbe giunta la fine.

Non lo sapevano, non ne avevano idea: cercando pace, cercando una qualche sorta di espiazione, voltarono le spalle alla terra che avevano giurato di proteggere sette secoli addietro e ne cercarono una nuova. Fu un bel sogno -meraviglioso, invero, un curioso intreccio di morbida luce speranzosa ed un senso di vittoria esilarante, un incontrarsi di coscienze che, per la prima volta, sarebbe stato accompagnato da un tocco… Mutarono forma.
Hanasiranae sentiva. Le sue dita intrecciate a quelle di Irusakiran cantavano, e i baci che si scambiarono in quei primi giorni, quei giorni che erano ancora giorni felici e forti di un futuro pulito e limpido, furono ardenti e gioiosi, ogni loro contatto, anche il più semplice, intimo e familiare all’inverosimile.
Ma gli angeli erano esseri imprevedibili, cui il passare del tempo risultava irrilevante, futile persino; non si poteva prevedere quando esattamente avrebbero scelto di vendicarsi della perdita del loro più caro Potere, quando esattamente avrebbero gettato su demoni e hakeruneshka tutta la loro furia mortale. Irusakiran e Hanasiranae attendevano, all’erta, di cogliere i primi segni della fine di ogni cosa.
Non erano stati in grado di adempiere al proprio compito.
Giunsero, infine, e l’ultima delle loro guerre fu un evento orrido e vergognoso e indimenticabile -e tutto ciò che i Guardiani avevano costruito, la pace, la comprensione, svanì in un istante sotto i loro occhi di gelido universo, svanì sotto il peso di una Maledizione folle e crudele che li avrebbe spinti a combattersi fino ad annientarsi: demoni e hakeruneshka, popoli che erano l’uno il riflesso dell’altro, destinati ad odiarsi e distruggersi in eterno in una replica di ciò che gli stessi angeli avevano vissuto. Una punizione, forse?
Sì, era una punizione, e i Custodi ne portarono il peso insieme; gli ottocento anni che seguirono scivolarono via in fretta in un turbinio di battaglie inutili e sanguinose, in una interminabile serie di fallimenti che li rese alieni e nemici di quella stessa terra che era loro figlia. E pure si sacrificavano, minacciavano e imploravano, fino a che non decisero ch’era troppo tardi, che si sarebbero lavati le mani di quella gente che di loro non ne voleva più sapere.
Si ritirarono e la guerra li trovò comunque. La guerra che erano nati per combattere si prese l’unica cosa per cui Hanasiranae ancora lottava -la guerra, il suo stesso popolo si prese la vita del suo amato compagno. Stringendo a sé il suo corpo freddo l’ultima Guardiana gridava il proprio dolore e il proprio sconcerto e la propria rabbia, e per una volta -l’unica- il suo potere di Creazione divenne scuro e crudele ed uccise.
La dolce Hanasiranae si macchiò le mani del sangue di persone che avrebbero potuto essere risparmiate, ma non se ne curò, troppo presa dalla propria cupa disperazione.
Cosa ne sarebbe stato di lei, adesso che Irusakiran era morto, portandosi via metà della sua anima e tutto quel che restava delle sue speranze? Non c’era altro che buio.
Ma era vincolata alla promessa che lui stesso le aveva strappato prima di morire. Proteggerò questa terra, ad ogni costo.
In fondo, cosa importava che in lei non fosse rimasta che una voragine aperta e vuota? Cosa importava che non avesse più nulla da donare né da desiderare? Cosa importava che per quanti sforzi facesse, Neith -terra dannata!- continuava a sfaldarsi tra le sue mani, a sfuggire dalla sua presa tremante, a morire?
Cosa importava?

Lei era Hanasiranae. Era la Guardiana.

-Vale

lunedì 5 settembre 2016

Il personaggi di 'Le Ombre di Kaykoura': Lija


So che pensavate avessimo finito con i personaggi di questo libro, ma per fortuna (o purtroppo, decidete voi), oltre al 'quartetto' abbiamo qualcun'altro da presentarvi.
A voi Lija, la Custode del Fuoco, non protagonista ma una ninfa di estrema importanza.




                         Lija, la Custode del Fuoco come l'animale che la rappresenta: 
                                                                   la farfalla, by Marty







Lija era un fuoco scoppiettante in tutto e per tutto. Era la brezza d'estate al mattino, una farfalla in piena primavera, un fiume gorgogliante di emozioni e brio.
Nessuno avrebbe mai detto che una Custode potesse essere 'la dama più svampita del reame' -per usare le parole di Naam- ma tale soprannome era più un gioco che altro. Vi erano molti aggettivi per descriverla, buoni o cattivi che fossero, ma di sicuro "stupida" non rientrava in quell'ampio vocabolario.
Lija era dolce, Lija era allegra, Lija era un po' matta e sicuramente la sua esuberanza superava di gran lunga quella media della popolazione, ma nessuno poteva mettere in dubbio il suo cervello e la serietà nascosta dietro un paio di occhi verdi e un sorriso smagliante.
Era una sarta ed un fabbro, per lei nulla era impossibile, e ai suoi doveri di Custode del Fuoco si aggiungevano ordinazioni e richieste che non smettevano mai di farla girare come una trottola, eppure di questo non si lamentava, anzi: sorrideva, ed eseguiva con lo stesso entusiasmo di una bambina davanti ad un regalo.
Non temeva nulla, i nervi sempre saldi e la risoluzione di una guerriera: quando sua madre era stata quasi uccisa dagli Elfi Oscuri aveva versato una lacrima sola, e poi si era ripromessa che non si sarebbe spezzata "succeda quel che succeda".
A vederla, sembrava vivere in un sogno, gli occhi di smeraldo sempre brillanti, le guance sempre colorate di rosso, e il sorriso perenne; quando camminava, era pura energia positiva. Sapeva come far ridere chi piangeva, come consolare le persone, e mai, mai aveva chiesto l'aiuto di nessuno.
Lei rideva, e basta, nascondeva l'eventuale timidezza dietro un boccale di birra elfica e nei pizzi di un abito fatto 'in casa', e portava avanti il proprio lavoro.
Era anche innamorata, e lo sapevano tutti, persino il diretto interessato, perché tra fiori e cioccolatini i segni non si possono certo equivocare, e lei era persino esuberante, e troppo frizzante perché nessuno si accorgesse che 'il bell'elfo tenebroso' l'aveva colpita ben più di un po'.
Una cotta passeggera, forse, l'infatuazione di una donna poco più che ragazzina, ma per quanto potesse occupare i suoi pensieri mai era passata davanti ai doveri di Custode, o agli amici, o alla politica di un regno fragile.
Varon -così si chiamava il 'bell'elfo'- la sopportava poco, forse, ma la sopportava, e a volte era bello poterci scambiare due parole… sempre ammesso che fosse riuscita a trovare il coraggio per andare da lui.
Non avrebbe saputo spiegare il perché di tale interesse: forse, era la voglia di comprenderlo, perché non le piaceva chi era sempre così triste, chi non sorrideva quasi mai. Forse era stata una sorta di sfida con se stessa, un innocente 'voglio che rida' che poi si era trasformato in qualcosa di più.
Perché lei era così, allegra, spumeggiante, vivace, e viveva per gli altri.
A se stessa, be', pensava poi.



<<Eppure non mi inviti a ballare.>> Si morse il labbro quasi immediatamente, ma rifiutò di tornare sui propri passi, incrociò le braccia dietro la schiena e sollevò il mento.
Per un istante fugace un lieve lampo di preoccupazione brillò negli occhi dell’elfo del Consiglio: <<Dovrei?>>
<<Dovresti.>> Ancora, la Custode mantenne salda la propria posizione: <<È buona educazione, sai.>>
<<Davvero?>> Varon soffiò una mezza risata: <<Quand’è così non mi lasci altra scelta.>> Senza smettere di ridere maliziosamente davanti alla sorpresa di lei, le porse la mano in un gesto misurato: <<Balliamo.>>




-Marty

martedì 30 agosto 2016

I personaggi di 'Le Ombre di Kaykoura': Maya

Il quartetto dei protagonisti di 'Le Ombre di Kaykoura' si conclude con Maya. Mentirei se dicessi che pensare una presentazione che le si adattasse è stato facile... Per quanto sia il primo personaggio completo che io abbia mai creato (o forse proprio per questo) ho sempre l'impressione (o il timore) di non riuscire bene a mostrare quanto quest'elfa (l'unica nella sua terra) sia complessa e piena di sfaccettature: non è semplicemente una madre amorevole che non può avere figli; è molto più di una semplice guida politica; è fragile nella sua continua lotta fra ciò che ci si aspetta da lei e ciò che lei ritiene giusto; è forte nel suo essere di mente aperta e libera da pregiudizi, e nel suo saper leggere quel che si cela nell'animo di chi la circonda.


Maya, con le effigi del suo potere: il Serpente con il seme a indicare la vita mortale e immortale che protegge; la spada di Sharad a testimoniare la sua lotta contro gli Elfi Oscuri; il giglio blu che è simbolo del Consiglio degli Elfi di cui è Capo; by Vale



“Da questo momento in poi, piccola Maya, tu sarai protettrice di questa terra; come elfa, sarà tuo compito dare anima e sangue a lei e alle sue creature, fino a che non morrai, o vivrai nella vittoria.”

Aveva cinque anni e lì terminava sua infanzia; la testa reclinata all’indietro fin quasi a far male, fissava negli occhi lo spirito severo e triste della Prima Elfa. Sharad la guardava, concentrata solo ed esclusivamente su di lei, il volto pallido una maschera d’indifferenza tinta dalla più minuscola goccia di compassione. Lentamente, in un gesto che troppe volte aveva ripetuto, estrasse dal fodero la spada antica e gliela porse: così passava a quella bambina tremante e fragile la propria assurda eredità fatta di guerra e obbedienza e oscurità. Maya rimase in silenzio, osservando con timore l’arma sottile e antica e più alta di lei scintillare di riflessi di giada nella luce del mezzogiorno.

“Mia figlia è diversa… è figlia della natura, prima che mia. Io devo proteggerla, Aelyo, e non ho tempo di giocare all’assassino con te e la tua combriccola di Cacciatori.”

Suo padre capiva molto più degli altri cosa significasse per la piccola Maya essere un’elfa: aveva sei anni e nella sua mente si rincorrevano le memorie di Sharad e delle sue compagne, ricordi adulti, incomprensibili, terrificanti, ricordi che erano tinti di sangue e del nero colore della Morte. Lei sarebbe diventata lo scudo su cui si sarebbe abbattuta la furia del loro eterno nemico, lei sarebbe diventata la schiava della storia e del destino, lei avrebbe lottato fino a sacrificarsi. Elanen voleva proteggerla, disperatamente.

Tu sei la causa di ogni mio male.

Quelle parole dipinte sul viso della madre erano forse ciò che le era più difficile affrontare; aveva sette anni e suo padre era morto, morto perché la proteggeva, e davvero la bambina non trovava in sé la forza di biasimare la ninfa che non riusciva neanche a sopportare la sua presenza e voltava il capo per non dover posare gli occhi su di lei. E i loro occhi erano tanto uguali -stesso colore turchino, stessa forma affilata- eppure tanto diversi -quelli di Maya erano addolciti da una tristezza infinita, qualcosa che le apparteneva ma solo in parte, quelli di Miisa erano vuoti, allucinati.

“Elfa, il tuo solo scopo in questo mondo è batterti con me! Combatti! Ti ucciderò in ogni caso, combatti!”  

Maya aveva otto anni e la sua guerra era ormai cominciata. Stringeva a sé il ciondolo di Sharad, la Lacrima del Castagno, la manifestazione dell’enorme potere che doveva proteggere, e silenziosamente affrontava il Re degli Elfi Oscuri. Chino su di lei, Kyragh la guardava con millenari occhi di ghiaccio, portando con sé la certezza che non esisteva altra certezza se non la lotta, la sofferenza, la morte.
La bambina spiava nella sua anima e vi si vedeva riflessa, perduta in un oceano di oscurità, rimpianto, desiderio di vendetta; era quello il suo eterno nemico, eppure odiarlo non le era possibile -un’elfa non può odiare, un’elfa è obbediente, un’elfa è buona- né provare il desiderio di ucciderlo. Perché lui era diventato la sua àncora, il suo punto di appoggio, e per quanto la tormentasse e la colpisse e la terrorizzasse, pure la consolava e la abbracciava e guariva quelle stesse ferite che le aveva inferto…

“Tu sei la persona più coraggiosa che io abbia mai visto. Sei più forte di un drago. Stammi bene a sentire, Maya. Nessuno deve, hai capito? Tutti hanno diritto a una scelta! Sia tu… che lui. E lui per due millenni ha scelto il male e la follia e la perversione.”

A dieci anni, Maya era pericolosamente vicina al punto di rottura. Non sapeva se sarebbe stata l’indifferenza della madre o la follia di Kyragh a darle il colpo di grazia, ma sapeva che sarebbe giunto. Per sessanta lunghi mesi aveva portato avanti la guerra di Sharad -sono stata forte, non ho mostrato debolezza, non ho consegnato il mio potere a lui, ma- aveva paura, troppa paura. Raggomitolata tra le braccia del suo amico di una vita, cercava una briciola di calore per superare un altro giorno; e Hashim, il figlio della più grande Cacciatrice di Elfi Oscuri di ogni tempo, si aggrappava disperatamente a lei e tentava di nasconderla allo sguardo di Kyragh. Lui era il suo rifugio, e solo se premeva il viso nell’incavo del suo collo e sentiva la sua voce all’orecchio e le sue mani nei capelli poteva trovare pace. Lui era la sua speranza.
E davvero pensò che fosse finita quando il Re Oscuro glielo portò via -lo uccise, forse. Invece Maya si scoprì stanca e furiosa e ribelle, scoprì il desiderio di ergersi al di sopra di quel destino che non aveva scelto, scoprì la voglia di vivere, ma vivere sul serio, vivere serenamente. Gettò da parte gli ideali di Sharad -è un fantasma, un fantasma!- e fuggì.

“Sai, Maya, tu sei completamente diversa da ciò che un’elfa dovrebbe essere. Sei un mistero -non riesco a comprendere come tu possa anche solo desiderare di avermi vicino.”

Maya aveva ventidue anni -bella e giovane e fresca e ancora schiava- e sedeva composta, vestita di bianco e oro, la testa reclinata sulla spalla di colui che avrebbe dovuto essere suo nemico. Varon la osservava con affetto e curiosità, e i suoi occhi di ghiaccio, così simili a quelli di Kyragh, brillavano di una luce piena di meraviglia. “Siamo uguali, noi due,” gli diceva lei, “Entrambi prigionieri di ruoli che non ci appartengono…”
Buoni, cattivi. Che concetto infantile e pericoloso… Erano due creature sole, vittime del fato: illudersi che forse sarebbe stato amore a legarli fu facile, davvero, e fu quella breve relazione, più di ogni altra cosa, a farle finalmente capire che non c’era un’unica risposta esatta; e capì che per lei era indispensabile restare in equilibrio, bilanciarsi tra le due parti, non sceglierne una e darle la propria fede assoluta.

“Maya, mia cara Maya -tu sai che questa è casa tua: niente potrà separarti da noi. Non esiste dovere né destino che possa vincolarti tanto. Ormai hai prestato giuramento, sei una di noi. Sei libera.”

Maya sorrise al suo nuovo amico. Aveva venticinque anni ed era Capo del Consiglio degli Elfi, aveva venticinque anni e d’un tratto l’immortalità non le sembrava più una cosa terribile e mostruosa. Hinn era al suo fianco, e Varon, e Darn, e tutti i suoi compagni, e lei era a casa. Non aveva dimenticato il proprio dovere, non aveva dimenticato Kyragh né la propria eterna lotta, no… Li aveva semplicemente messi da parte, perché non erano essi a definirla: mai più, mai più, si sarebbe lasciata incatenare da simili follie.
Era libera.



-Vale